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Il nuovo Vietnam: l'economia è donna
by Đặng Thanh Hà Azzurra - Thursday, 4 December 2008, 07:29 PM
 
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HANOI
— Durante la guerra, il padre e la madre di Nguyen Thi Thanh Huyen lavoravano in una fabbrica di periferia oltre il Fiume Rosso. Come mostra tuttora una foto d’epoca appesa all’ingresso, l’aveva fondata Ho Chi Minh nel ’46 per fornire divise all’esercito nord-vietnamita. Il padre di Huyen morì nel ’72 quando i B-52 americani bombardarono un impianto, la madre nell’84.

A quel punto Huyen aveva appena finito le superiori, ed applicando uno dei tipici diritti ereditari del collettivismo, l’impresa le offrì un posto da operaia. Allora il Vietnam era sotto embargo, il suo esercito era in Cambogia e le necessità di produzione pressanti. Oggi Huyen ha 44 anni, due figli grandi. Gradino dopo gradino è salita fino a diventare numero uno di quest’icona industriale di Hanoi che va sotto il nome di Garment 10. Minutissima come molti nella generazione che ha provato la fame bellica e poi quella dopo la vittoria, Huyen ha impresso una svolta al gruppo. Ha tralasciato le uniformi, si è concentrata sulla subfornitura: Pierre Cardin, Alain Delon e Camel per l’Europa; Van Heusen, Gap o Old Navy in America.
Un operaio qui è pagato 0,28 centesimi di euro l’ora (un quarto rispetto a Shanghai), un abito esce di fabbrica al costo di 5,2 euro; alcuni hanno sotto la tasca del portafoglio un marchio che recita in italiano, e letteralmente, «Immaginazione». Ma inutile chiedere a Huyen quanto sappia di agrodolce per lei trattare con i clienti americani. «Vedo come lavorano e come pensano, imparo — dice con una voce e una risata possenti —. Per fare affari bisogna essere amici e a noi qui piace svilupparci».

Qualcuno lo chiamerà capitalismo delle donne, magari mascherato da socialismo. Lungo i viali della capitale i motorini dei teenager dai caschi verdi, copiati dai GI americani anni 70, sfrecciano sotto gigantografie di gusto staliniano. Vere, queste: icone enormi con l’operaio, il contadino e il soldato, sguardimaschi sotto la falce e martello, la stella rossa emagari un Ho Chi Minh più o meno nell’alto dei cieli. A riprova del rispetto che ancora ispira, qualcuno dice abbia inventato la televisione. Ma non bisogna sbagliarsi: fuori dai cartelloni, dietro le scrivanie dell’ultima tigre asiatica, molto del potere è delle donne. Non nel governo del partito unico, che ne include una sola e in un ministero secondario; no: il loro territorio è il settore privato, quello in crescita esponenziale.

Allo «hedge fund» Ipa di Pham Minh Huong, un’ingegnera formata a Kiev negli anni di Breznev, i soli uomini li vedi in portineria. Altrove spolverano i tavoli, guidano le auto aziendali. Vinamilk, il più grande gruppo del Paese per valore di Borsa, ha una Ceo e un consiglio a maggioranza femminile. Ree Corp., la prima società a quotarsi nel 2000, è guidata da Nguyen Thi Mai Thanh, un’ex infermiera Vietcong passata in 30 anni dalla guerriglia nella giungla ai vertici della classifica dei più ricchi del Paese.
Investitori esteri altrove in mano a imponenti figure maschili, Bp, Coca- Cola, Unicredit, qui si affidano a un management tutto femminile. E quando il capo della banca di Sydney Anz visitò la sua squadra in Vietnam, gli sfuggì qualcosa di ruvido anche per un australiano: «È la prima volta che sono il solo uomo a un incontro di lavoro».

«Maschi ne assumerei - si difende Thuy Dam - se rispondessero ai criteri». Il problema dell’amministratrice delegata di Anz a Hanoi è in quella che forse resta l’unica sindrome postbellica del Vietnam ancora ignorata da Hollywood. Non è solo che sia raro incontrare un uomo oltre i 55 nel centro di Hanoi,mentre folle di sopravvissute alla guerra si spennellano a vicenda i capelli sulla ricrescita accucciate sui marciapiedi, succhiano ciotole di vermicelli o vendono granchi vivi e carne di cane. Le donne non sono solo di più. Sono anche più pronte a manovrare le leve di un’economia in pieno boom.

«Durante la guerra gli uomini combattevano, noi facevamo funzionare il Paese - dice Dam -.
Fu una benedizione: non abbiamo dovuto affrontare le battaglie delle europee, quando è nato il Vietnam moderno il potere lo avevamo già». Non l’hanno più ceduto. La nonna di To Minh Huong, la 34enne amministratrice delegata della banca Gateway Securities-Morgan Stanley, in tempo di guerra prese le redini di un’azienda tessile di 2.000 dipendenti come un dovere patriottico. Di generazione in generazione tutte le donne della sua famiglia hanno contribuito allo sforzo bellico, poi al socialismo ora sempre più mischiato a un capitalismo quasi primordiale. Huong ricorda quando all’età di dieci anni intuì che qualcosa stava per cambiare: «Lessi sul Giornale del Popolo certi commenti domenicali siglati dall’allora premier Nguyen Van Linh. Era un linguaggio nuovo». Non fu sempre facile, in una Hanoi dove oggi le Lamborghini attendono fuori dei ristoranti alla moda e sul Fiume Rosso gli immigrati delle campagne vivono in zattere di un metro per due riciclando rifiuti. La nonna di To Minh Huong, comunista e manager, fra mille turbamenti rinviò fino al ’90 la scelta di affittare un suo appartamento. Anche oggi Huong non alza bandiera bianca: «Mi sento una capitalista? No: ho studiato finanza per sostenere la mia famiglia - dice nel suo vasto ufficio controllato al 49% da Morgan Stanley -. Del mio socialismo,mi resta ancora il nazionalismo».

A ben vedere in effetti quella falce e martello che batte ovunque, persino l’alta statua di Lenin in un parco centrale di Hanoi non parlano di ideologia, ma di patria. Come tali, sono accettabili anche per chi viene da un’altra storia. Anne Tristine Nguyen, 26 anni, direttrice di VinaCapital, banca anch’essa quasi tutta femminile, lasciò Ho Chi Minh City nel ’92: suo padre aveva combattuto per il Sud filo-americano, solo l’aver perso una gamba su una mina gli aveva evitato la «rieducazione» toccata ad altri in famiglia.Ma Anne restava tagliata fuori dalle scuole migliori nel Vietnam di allora. Seguono per lei laurea emaster a Harvard («lavorando duro in modo irragionevole: mai stata così infelice»), un passaporto americano, l’ingresso al Dipartimento di Stato. «Dopo quattro anni - dice - sono venuta ad Hanoi. Guadagno meno, ma volevo essere parte di questo boom».

Un percorso in fondo simile a quello di Tran Thi Hoai Anh che vide suo padre per la prima volta all’età di sei anni, nel ’74: ingegnere dell’esercito del Nord, lui aveva sempre vissuto fra Germania Est, Cina, Romania, Russia. Dell’infanzia Anh ricorda le bombe dei B-52, le corse notturne all’ospedale della madre anestesista di sala operatoria, gli abiti ritratti nei libri in russo. Vent’anni dopo, Anh si presenta a Sergio Rossi e gli propone di vendere i suoi capi in Vietnam. Oggi trascorre la sua vita fra Milano, Parigi, New York e Ho Chi Minh City dove è il volto di Balenciaga, Marc Jacob e una decina di altre griffe.

Il suo passo da star è l’opposto rispetto a Hoang Thu Huong, l’insegnante di liceo che nell’88 aprì un minuscolo alimentari pomeridiano per arrotondare. Ora che è diventato un gruppo da centinaia di milioni di dollari e ha battuto la concorrenza statale, nella sede di Saigon, accanto alla targa di miglior distributore mondiale di Nestlé 2002, ha un’effigie di Ho Chi Minh che impugna il moschetto. Gli anni di guerra ’45-75 sono marcati in giallo e c’è una scritta: «Vinceremo perché crediamo nella gente - traduce -.
È anche il mio motto».

Federico Fubini
28 marzo 2008